La serie diretta da Stefano Sollima esplora la pista sarda del mostro di Firenze con un racconto cupo e realistico, restituendo il clima di paura e smarrimento dell’Italia di quegli anni.
C’è un’Italia che non riesce a dimenticare. Un’Italia che torna sempre a cercare risposte nei silenzi e nelle ossessioni del mostro di Firenze, uno dei casi più oscuri della cronaca nera nazionale. Con la serie Il mostro, disponibile su Netflix dal 22 ottobre, Stefano Sollima riporta alla luce una storia che ancora divide, scegliendo un approccio lontano dalle regole del thriller. Non c’è spettacolo né compiacimento, ma una lente d’ingrandimento sui meccanismi dell’indagine, sulle colpe collettive e su un Paese intrappolato tra paura e pregiudizio.
La serie non ha l’ambizione di risolvere un mistero. Racconta invece la percezione, il disorientamento e le conseguenze di una delle inchieste più lunghe e controverse della storia giudiziaria italiana. Sollima sposta il fuoco dal colpevole alla società che lo ha cercato, restituendo il senso di una giustizia confusa, dove ogni certezza sembra destinata a sbriciolarsi.
Un racconto che spiazza lo spettatore
Le prime puntate appaiono lente, quasi respingenti. I piani temporali si intrecciano, la narrazione si spezza, la musica inquieta più che accompagnare, mentre gli attori, privi di nomi noti, interpretano con misura figure che sembrano venire da un tempo remoto. Manca ogni riferimento ai volti ormai noti del caso — Pacciani, Vanni, Lotti — e la storia parte da lontano, quando ancora l’Italia non parlava di “mostro”.

Poi, lentamente, la percezione cambia. Alla seconda e terza puntata la serie si apre, mantenendo lo stesso ritmo ma modificando il modo in cui chi guarda affronta la narrazione. Ogni episodio propone una ricostruzione diversa, un altro sospettato, un’altra verità possibile. Lo spettatore entra così nel labirinto delle versioni ufficiali e dei depistaggi, condividendo lo smarrimento di investigatori e magistrati. Sollima costruisce una trama che non punta alla soluzione ma all’esperienza del dubbio, quella sensazione di incertezza che accompagna chiunque si sia interessato al caso negli anni.
La scelta registica è radicale. Gli omicidi non vengono spettacolarizzati, ma mostrati con freddezza quasi clinica, come se lo spettatore osservasse i referti. La tensione nasce dal silenzio, dal non detto, dai campi lunghi e dalle pause. Ogni fotogramma restituisce un senso di inquietudine sottile, amplificato da una fotografia cupa e da un montaggio frammentato che rispecchia la confusione dell’inchiesta.
La pista sarda e il volto nascosto dell’Italia rurale
Il fulcro narrativo de Il mostro è la pista sarda, la prima direzione investigativa seguita dalle forze dell’ordine. I protagonisti sono Stefano Mele, Giovanni Mele, Francesco e Salvatore Vinci, sardi trasferiti in Toscana, finiti al centro dei sospetti dopo un omicidio avvenuto nel 1968. Le indagini collegano quel delitto ai futuri omicidi delle coppie per via della stessa pistola Beretta calibro 22 e dei proiettili contrassegnati dalla lettera H.
Sollima decide di raccontare proprio questa fase dimenticata, restituendo il clima sociale di un’Italia chiusa e profondamente patriarcale. Nelle campagne toscane degli anni Sessanta si intrecciano tradizioni violente, matrimoni forzati, abusi e una morale pubblica ipocrita che convive con pulsioni segrete. Le donne non hanno voce: vengono giudicate, ignorate o ridotte a simboli. Il regista definisce il suo punto di vista “femminista”, perché mostra come lo sguardo maschile, quello che decide, controlla e punisce, resti invariato nel tempo.
In questa cornice il caso del mostro diventa lo specchio di un Paese malato, dove la giustizia è fragile e la verità si confonde con la narrazione. Il consulente storico Francesco Cappelletti assicura la precisione dei dettagli, ma Sollima trasforma il rigore documentaristico in materia narrativa, mostrando come ogni errore investigativo generi nuove illusioni. Il risultato è un racconto che non accusa né assolve, ma osserva.
Le suggestioni finali e il fantasma di Pacciani
Nell’ultimo episodio Salvatore Vinci scompare. E con lui finiscono anche i delitti. Una coincidenza che resta sospesa, mai confermata, ma che chiude simbolicamente il primo ciclo di violenza. Solo pochi secondi finali introducono Pietro Pacciani, destinato a diventare il volto più noto del caso. È un’apparizione rapida, ma densa di significato: segna il passaggio da un’indagine collettiva a una colpevolezza individuale, dal sospetto diffuso alla costruzione del “mostro” mediatico.
Sollima non offre spiegazioni. Si limita a mostrare, lasciando che il pubblico resti in bilico tra verità e suggestione. Come nella realtà, le risposte mancano, e ciò che rimane è la sensazione che ogni certezza sia temporanea. Nelle sue parole, pronunciate alla Mostra del cinema di Venezia, “il mostro, alla fine, potrebbe essere chiunque”. Un’affermazione che riassume lo spirito della serie: disorientare per far riflettere, mostrando che la paura più grande non viene dall’assassino, ma da ciò che la società sceglie di non vedere.
La serie arriva in un momento significativo: quarant’anni dopo l’ultimo delitto, tra nuovi libri, podcast e documentari. Ma Il mostro si distingue per la sua sobrietà. Niente tesi da difendere, solo la volontà di restituire l’atmosfera di un’Italia sospesa tra cronaca e memoria. È una storia che non si chiude, perché forse non può. Ed è proprio questa mancanza di chiusura a renderla vera.