The Fall, il film che dopo quasi due decenni regala ancora emozioni e meraviglia senza tempo

In una stanza d’ospedale di Los Angeles degli anni Venti si consuma il nucleo emotivo di un film che chiama lo spettatore a scegliere tra dolore e immaginazione.

La scena è semplice: un uomo ferito racconta una saga a una bambina annoiata, e da quel racconto nascono interi mondi. Questo è il punto di partenza di The Fall, opera che ha diviso critici e pubblico ma che, a quasi vent’anni dalla sua uscita, continua a essere citata per la sua forza visiva. Dietro la macchina da presa c’è Tarsem Singh, regista che traduce il disagio personale in spettacolari invenzioni di scena. Un dettaglio che molti spettatori sottovalutano è come la storia apparentemente semplice serva a misurare fiducia, responsabilità e riscatto, senza per questo rinunciare a una concezione del cinema fatta di corpi e paesaggi veri.

Tra realtà e finzione

La trama procede per contrasto e per corrispondenze: a un letto d’ospedale si affianca un’epopea di eroi e tradimenti. Nel film il protagonista, Roy, è un uomo che ha perso autonomia e si aggrappa al racconto per tenere insieme frammenti di sé; dall’altra parte c’è Alexandria, una bambina che prende ogni parola come una mappa da esplorare. Questo gioco fra i due non è un mero espediente: lo sviluppo narrativo mostra come i personaggi inventati diventino specchi degli stati d’animo reali, e come gli oggetti quotidiani si trasformino in simboli di salvezza o di colpa.

The fall
Immagine @Primevideo

Il montaggio alterna repliche di stanza e sequenze fantastiche senza linee nette: volti reali ritornano nei ruoli immaginati, e la tensione emotiva si costruisce anche attraverso omissioni visive. Chi guarda si trova costretto a leggere i silenzi oltre alle parole, e questo processo rende la visione meno passiva. Un aspetto che sfugge a chi guarda distratto è la scelta di non spiegare tutto: molte informazioni restano implicite, e per questo la storia guadagna in vitalità.

La dinamica tra chi racconta e chi ascolta diventa così il vero soggetto del film. Roy manipola la fiaba per ottenere qualcosa di concreto — comprensione, redenzione o semplicemente compagnia — mentre Alexandria, con la sua curiosità istintiva, obbliga la narrazione a trasformarsi. Nel costruire questo doppio registro, il film mette in scena una teoria semplice: le storie servono non solo a intrattenere ma a ricomporre pezzi di vita spezzata.

Immagine e luogo: un cinema in viaggio

Il linguaggio visivo di The Fall è spesso indicato come l’elemento che lo distingue maggiormente. Singh evita ricostruzioni digitali su larga scala e sceglie invece luoghi reali per ogni ambientazione, affidandosi alla potenza dei paesaggi e alla stratificazione del colore. Dalle dune della Namibia ai templi dell’India, dai deserti egiziani ai chiostri europei, ogni set funziona come un’immagine autonoma: non semplice sfondo, ma corpo narrativo. La regia sembra cercare il massimo effetto con mezzi concreti, e questo approccio restituisce alla fotografia una qualità tattile che molti film contemporanei perdono.

La tavolozza adottata sfiora il barocco per densità e saturazione: il colore diventa linguaggio emotivo, e non mera decorazione. Ogni inquadratura è costruita con attenzione maniacale alla simmetria e alla luce, ed è in questo equilibrio visivo che il film trova la sua ipnosi. La collaborazione con il direttore della fotografia aumenta l’effetto: alcune sequenze vivono di controluce e dorature che rimandano a pitture e fotografie d’epoca.

Resta poi il tema della tecnica: la scelta di limitare la CGI non è solo estetica ma anche concettuale. Riprendere luoghi reali pone vincoli produttivi, ma restituisce autenticità e movimento al racconto. Un fenomeno che in molti notano solo nelle sale di nicchia è come questa adesione al reale influisca sulla percezione dello spazio, rendendo ogni scena concreta e fragile allo stesso tempo. In questo senso, il viaggio del film è anche un invito a riscoprire il lavoro sul campo come valore artistico.

Emozione, imperfezione e il richiamo al cinema delle origini

Al centro di The Fall c’è una scommessa sulle emozioni: il film non cerca l’eguaglianza perfetta tra forma e sentimento, e spesso lascia trasparire crepe e incertezze. È una scelta consapevole che aiuta a umanizzare l’esperienza visiva. La sceneggiatura privilegia gesti e sguardi rispetto a spiegazioni psicologiche dettagliate, e così i ruoli secondari assumono la funzione di archetipi più che di profili completi. Questo approccio rimanda al cinema primitivo, a quegli spettacoli in cui l’azione fisica e l’acrobazia parlavano più delle parole.

L’omaggio è evidente: Singh ricorda le imprese dei stuntman e il ritmo visivo del muto, riportando in primo piano il valore del corpo come strumento narrativo. Le performance sono calibrate su questo principio: Lee Pace dà voce a una frattura morale senza eccessi, mentre la presenza di Catinca Untaru introduce spontaneità e imprevedibilità. Il regista ha lavorato molto sulla libertà della bambina in scena per catturare reazioni autentiche, e il risultato è una relazione che suona vera più per dettagli che per ragioni.

La colonna sonora accompagna senza sostituirsi: la colonna sonora alterna momenti lirici e tonalità malinconiche, sostenendo la dissolvenza tra racconto e realtà. Non è un film che pretende perfezione tecnica, ma uno che investe sulla capacità del cinema di curare, o almeno di contenere, il dolore. Un particolare che resta dopo la visione è la sequenza finale, che lascia spazio a una malinconia concreta e a una traccia visiva difficile da scordare — un’immagine che spinge a cercare il film nei cataloghi delle rassegne e nelle programmazioni dei cinema d’essai.